venerdì 30 marzo 2007

Pazzini alle Iene: sesso pre-partita

Il sesso fa male prima della partita? Chi lo sa...

Le iene - Lillo e Greg - Sesso in macchina

Lillo e Greg ci dimostrano come si fà sesso in una macchina piccola.

Ecco il video:


La mano argentina di Dio che vendicò le Malvinas

«Per l’Argentina! Per le Malvine!». Nello spogliatoio di Città del Messico, ai Mondiali 1986, quest’urlo è l'apice di Maradona.

La mano de Dios di Marco Risi. L'adolescente calciatore che, nel 1976 del golpe di Videla, ha sedici anni e non fa politica, fa l'amore (proprio mentre passa - in una scena - la tipica Ford Falcon della polizia segreta), dieci anni dopo guida la riscossa calcistica argentina sull’Inghilterra per la sconfitta militare del 1982 nell'arcipelago australe. E anche il titolo del film evoca il celebre goal di mano («La mano di Dio», dirà proprio Maradona). Così chi aveva dominato i mari con l'astuzia, con l'astuzia veniva umiliato sul mare d'erba dello stadio Azteca.


Un regista italiano alle prese con una coproduzione spagnola e immesso in un contesto argentino: come se cava? Bene. Cara al padre Dino fino dal Gaucho (1964) e a lui da Tre mogli (2001), l'Argentina di Marco Risi riesce meglio in Maradona, dove viene evocata con allusioni e col non detto, che quando viene scrutata da altri registi italiani, più problematici come Marco Bechis (Garage Olimpo).Erudito dal padre Dino, consapevole dal 1950 degli Eroi della domenica (da lui scritto) che «film sul calcio fa fiasco», Risi opta per il film sulla droga. Ma, per fortuna sua e dello spettatore, Maradona non è solo un drogato: è un eroe nazionale, che l’Argentina ama, come i Peròn e il Che (si veda Evita di Alan Parker e Comandante di Oliver Stone). Marco Leonardi già giovanissimo calciatore nell'indimenticato Ultimo minuto di Pupi Avati si conferma - nel ruolo di Maradona - il bravo attore che è e che, ora forse anche l'Italia, dopo Hollywood, riconoscerà come tale.


Salari, Italia maglia nera in Europa

Poveri italiani sempre più poveri. Siamo i «cenerentoli» tra i lavoratori europei dell’industria e dei servizi come peso della busta paga, sua rivalutazione nel tempo e per potere d’acquisto. A dirlo è uno studio Eurispes, che piazza l’Italia al quart’ultimo posto in Europa per l’ammontare dei salari lordi medi, con 22.053 euro l’anno, rispetto ai 42.484 della Danimarca, che guida la classifica. Dietro di noi solo Spagna, Grecia e Portogallo.

Colpa dell’inflazione, che ha avuto «un andamento decisamente superiore alla crescita dei salari lordi» e ha intaccato il potere d’acquisto (i nostri salari netti sono penultimi in Europa, con 16.242 euro, superiori solo a quelli portoghesi, di 13.136; i britannici primi con 28.007), ma anche dell’elevata pressione fiscale. Ci vede quarti in classifica - preceduti da Belgio, Svezia e Germania - con un aggravio del 45,85% per un lavoratore single a carico e del 36,6% per chi ha moglie e due figli a carico. In Irlanda un analogo padre di famiglia sopporta il 22%.

Infine, a pesare negativamente, c’è anche la contenuta dinamica salariale. Le nostre retribuzioni, dal 2000 al 2005, si sono rivalutate solo del 13,7%, percentuale che ci vede al terz’ultimo posto in Europa (prima la Gran Bretagna con +27,8%; la crescita comunitaria media è del 18%), seguiti da Germania (+11,7%) e Svezia (+7,7%), dove però gli stipendi sono già molto alti. Se poi andiamo a vedere l’incremento negli ultimi tre anni, sprofondiamo all’ultimo posto, con un +4,1%. C’è un bicchiere mezzo pieno? Le buste paga sempre più leggere risultano un vantaggio sotto il profilo della competitività. In termini di costo del lavoro la nostra ora media vale 21,3 euro, contro i 30,7 della Danimarca (dietro di noi Spagna, Grecia e Portogallo con 9,50 euro). Il commissario Ue agli affari economici e monetari, Joaquin Almunia, però, lo stesso bicchiere lo vede mezzo vuoto: sottolinea come l’Italia sia tra quei Paesi che negli ultimi anni hanno fatto registrare un aumento del costo del lavoro «particolarmente pronunciato» e ci invita alla moderazione salariale per «riguadagnare competitività».

Fonte: La Stampa