domenica 18 marzo 2007

Arrestato in Brasile l'ex terrorista Cesare Battisti

È finita in un hotel di Copacabana la fuga di Cesare Battisti, ex leader dei Pac, i Proletari armati per il comunismo, evaso da un carcere italiano nel 1980 e rifugiatosi in Francia 15 anni fa. Battisti, 54 anni, si era dato alla latitanza il 22 agosto 2004 per sfuggire a un’estradizione che vedeva sempre più vicina. Da tre anni, sulle sue tracce erano gli agenti francesi ed i carabinieri del Raggruppamento Operativo Speciale, che erano riusciti a localizzarlo in Sud America prima che facesse nuovamente perdere le proprie tracce. L’incontro con un esponente dei comitati di sostegno, che avrebbe dovuto consegnargli del denaro, è stato fatale all’ex «primula rossa», catturato dalla polizia brasiliana e dagli agenti venuti da Parigi insieme alla sua compagna.

E proprio a Parigi l’ex leader dei Pac, grazie alla ’dottrina Mitterand’, si era rifatto una vita: abbandonata la lotta armata, si era dato alla scrittura, diventando un giallista di fama e pubblicando opere in cui proponeva alcune analisi sull’esperienza dell’antagonismo radicale, tra cui ’L’orma rossà, edito da Einaudi. Poi, però, quando l’aria era cominciata a farsi più pesante, Battisti aveva deciso di fuggire. A cambiare le carte in tavola era stato il parere favorevole all’estradizione dato dalla Corte d’appello di Parigi il 30 giugno del 2004. Poco dopo il presidente francese Jacques Chirac aveva fatto sapere che avrebbe dato il via libera all’estradizione nel caso in cui il ricorso in Cassazione presentato dai legali di Battisti fosse stato respinto.

«La dichiarazione di Jacques Chirac, due giorni dopo la decisione della Corte d’appello, è riuscita a togliermi ogni speranza», aveva detto l’ex leader dei Pac nella lettera inviata agli avvocati Irène Terrel e Jean-Jacques de Felice per spiegare le ragioni della sua fuga. «Di fronte al baratro, cosa mi resta?», aveva scritto. «Soltanto i miei figli e la sottile possibilità, un giorno forse, di potermi spiegare sulle mie responsabilità politiche e di tornare infine su quel passato che l’Italia vorrebbe, mi pare, seppellire per sempre, al prezzo di una contraffazione storica».

«Non lascerò la Francia, non saprei farlo, è il mio paese e non ne vedo altri nel mio futuro», aveva scritto Battisti, aggiungendo: «Continuerò a battermi affinchè sia resa giustizia all’uomo e alla storia». Con la progione a vita, trent’anni dopo i fatti, «sarebbe la famiglia, i figli, altre vite a pagare», aveva spiegato, sottolineando: «Non posso correre questo rischio, non rivedere più i miei figli, il paese dove sono nati, l’idea mi risulta insopportabile».

Pochi mesi dopo, il 23 ottobre 2004 il primo ministro francese, Jean Pierre Raffarin, aveva firmato il decreto di estradizione che costringeva l’ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo a scontare la propria pena in Italia. Contro il decreto nel novembre 2004 i legali di Battisti avevano presentato invano ricorso al Consiglio di Stato, che aveva al contrario convalidato il decreto nel marzo 2005. Gli avvocati ci hanno poi riprovato poco più di un mese fa, presentando un ricorso presso la Corte Europea dei diritti dell’uomo di cui non si conosce l’esito.

Pur riconoscendo di aver fatto parte dei Pac, Battisti si era sempre detto innocente. Arrivato in Francia nel 1990 dopo alcuni anni trascorsi in Messico si era appellato alla dichiarazione del presidente della Repubblica François Mitterand, che nel 1985 aveva promesso asilo agli ex militanti della lotta armata che avessero rinunciato alla violenza.

In Italia l’ex leader dei Pac era stato condannato a due ergastoli per quattro omicidi: in due di essi, quello del maresciallo Antonio Santoro, avvenuto a Udine il 6 giugno del ’78, e quello dell’agente Andrea Campagna, avvenuto a Milano il 19 aprile del 1979, il terrorista sparò materialmente. Nell’uccisione del macellaio Lino Sabbadin, avvenuta a Mestre il 16 febbraio del ’79, invece, Battisti fece da copertura armata al killer Diego Giacomini e, nel caso dell’uccisione del gioielliere Pierluigi Torregiani, avvenuta a Milano il 16 febbraio del ’79, venne condannato come co-ideatore e co-organizzatore.

L’idea alla base di quel biennio di sangue, secondo quanto si appurò in seguito, era quella di colpire, oltre ad esponenti delle forze dell’ordine, i commercianti che si erano difesi durante i cosiddetti ’espropri proletarì. Proprio per questo nel mirino dei Pac finirono il macellaio di Venezia Sabbadin e il gioielliere di Milano Torregiani. In quest’ultimo caso, poi all’omicidio, si aggiunse un ulteriore tragedia: nel corso della colluttazione, il figlio del gioielliere, Adriano, venne colpito da una pallottola sfuggita al padre prima che questi cadesse, e da allora, paraplegico, è sulla sedia a rotelle.

Fonte: La Stampa.it

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